È la prima volta che riguardo queste immagini — attacca dopo aver ripercorso le partite vinte ai Giochi —. Mi sono emozionato. Adesso sì che ci rendiamo conto di cosa abbiamo fatto, più che allora. Noi allenatori dobbiamo trasmettere ciò di cui la squadra ha bisogno.
Questo gruppo veniva da un anno difficile, serviva tranquillità, occorreva combattere l’ansia, insegnare a vivere il momento.
Non c’era bisogno di urlare. Per tutta l’Olimpiade mi sono sforzato di rimanere impassibile, anche se dentro era diverso.
L’allenatore è un buon attore. Io non credo nei discorsi senza consistenza, senza una verità dietro.
A un allenatore prima di tutto devono piacere i suoi giocatori. Non perché sono i più forti, ma perché sono i suoi. Come per i figli”.
Per Velasco, una delle chiavi azzurre ai Giochi è stata la tecnica. “Abbiamo giocato meglio degli altri.
Questa è stata la cosa decisiva e questo è anche il momento giusto per dirlo. Certo, la psicologia, il gruppo, ma alla fine devi giocare meglio dell’avversario. Non bene, ma almeno meglio.
Abbiamo lavorato tantissimo sulla battuta e sulla ricezione. Nella pallavolo, nelle battute e nelle ricezioni si deve lavorare molto perché sono le cose che succedono sempre sicuramente”.
JULIO E AL PACINO— La lezione finale è anche un paradosso. “Gli errori che ora dico di non fare, all’inizio io li ho fatti tutti.
Facevo sentire i miei giocatori non efficienti, facevo passare il messaggio che quello forte ero io, ma poi giocavano loro. Preparavo le partite di under 14 come Al Pacino in Ogni maledetta domenica.
I ragazzini erano paralizzati, avevo creato un ambiente troppo carico”.
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