Cos’è la filosofia oggi?

Una domanda provocatoria, fiumi di inchiostro sono stati spesi in merito e, in forza del detto “troppa informazione, nessuna informazione” del neo profeta Eco, viene meno agli stessi addetti ai lavori il primo requisito per avere una risposta: avere una buona domanda. Cos’è la filosofia oggi non è solo un interrogativo, la cui risoluzione completerebbe il prontuario della buona conoscenza, ma un’accusa ben precisa che investe senza pietà, proprio perché non ascoltata, l’intera società odierna. Non tanto per gli “esperti del settore”, quanto per il lettore che pure si interroga sul senso di ciò che sta leggendo, questo articolo vuole affrontare, seppure solo parzialmente, il senso della domanda. Per capire perché tale domanda irrompa con tanta veemenza oggi occorre procedere ad un’interrogazione storica e teoretica.

In primo luogo, armati degli strumenti critici kantiani, occorre rilevare che domandarsi della natura di un oggetto significa, in ultima analisi, domandare della possibilità che quell’oggetto sia. Pertanto chiedere cosa sia la filosofia, vorrebbe dire interrogarsi sulla sua natura ultima, sulla sua essenza, posto che esista, e dunque indagare le condizioni in cui sia possibile fare filosofia. La sequenzialità è stringente ed il rigore con cui si impone all’intelletto non lascia spazio a facili misconoscimenti, la domanda non può essere disattesa, pena l’incomprensione del proprio stesso terreno di indagine. Da un certo punto di vista, dunque, la domanda corretta è: perché nasce la filosofia? Cova una certa ironia insita nel ragionamento il fatto che l’indagine sulle condizioni di esistenza oggi della filosofia è essa stessa filosofia. Detto in altri termini, la filosofia per sua natura è una meta scienza, i suoi frutti sono meta cognitivi, il che non implica che siano, necessariamente, meta-fisici [1].

Nel senso comune è ormai a fondo penetrata l’idea aristotelica del thaumazéin (provare meraviglia): un uomo ormai affrancato dai suoi bisogni animali, benché ancora rinchiuso in un recinto, quello della polis, avrebbe finalmente trovato il tempo di interrogarsi sul senso del suo esistere. Colto, sorpreso, direi quasi sopraffatto, dalla meraviglia che il mondo suscitava in lui (e lui era chiaramente parte di questo mondo), iniziò a far filosofia: ossia a porre domande e cercare risposte che fosse in grado di argomentare [2]. Beninteso, così come non fu Aristotele ad esser investito del compito di portare la logica agli uomini, così ben prima delle fonti scritte l’uomo deve essersi interrogato in merito. Né sarebbe corretto pensare che si possa ridurre alla sola domanda esistenziale l’alveo profondo in cui si sviluppò il pensiero occidentale. A me interessa tuttavia sottolineare, a prescindere dalla religione (che trovo ora come allora profondamente inelegante) e dalle filosofie di cui purtroppo non abbiamo traccia, come il vagito che annunciò al mondo la nascita della filosofia fu il problematizzare in generale, ed il problematizzare sul senso del proprio esistere in particolare. Poco importa se ci si interroghi, a seconda dello spirito del tempo in cui si vive, sull’archè del mondo o sul senso della forma politica della mondo, è tanto connaturata alla natura stessa del pensiero filosofico tale epistemologia che persino il senso comune, l’opinione tanto spesso ingrata verso il sapere alto, rammenta mitologicamente il problematizzare del senno filosofico:

il filosofo si aggira per i dedali, minotauro mostruoso nella sua stranezza,
ignaro della comoda uscita conosciuta da tutti
…[3]


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