Le emozioni intense danno dipendenza, e per questo tendiamo a riviverle circolarmente, siano esse piacevoli o spiacevoli. In realtà, gli stati dolorosi, nella loro acutezza, soddisfano appieno il bisogno di intensità e rassicurano l’oscura paura che l’essere umano ha di non essere, di non esistere. In noi è inscritto un codice falso, e molto pericoloso, che dice “se soffro, sono vivo; e più soffro, più sono vivo.” La sofferenza ci appare a volta anche come un segno di sensibilità, e può perfino dare l’impressione di essere più profondi degli altri, e a loro superiori. In realtà, la profondità deriva da un rapporto con la vita non mediato dal pensiero, e questo si traduce semmai in uno sfondo di leggerezza e, sopratutto, di semplicità.
Nei percorsi individuali dobbiamo spesso smantellare la maschera che gli schemi ricorrenti di emozioni conflittuali rappresentano, e dobbiamo anche iniziare a decostruire un’idea, purtroppo molto comune: quella che attraversare intensi processi catartici, liberando la carica emozionale, sia una via per guarire. Non è così, perché l’intensità traccia un solco nel sistema nervoso, e su quel solco s’inserirà la coazione a ripetere nuovamente quel processo ancora e ancora, fino al paradosso di vivere un’intera vita nell’idea di essere quella persona che ha quel tema e lo affronta.
Guarire richiede riconoscere lo schema con chiarezza, e poi compiere un atto di volontà creatrice nello smantellarlo per sceglierne un altro, più conforme al mandato dell’anima e meno alle ossessioni della personalità. È semplice, è difficile, non si può evitare.
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